Parto dal titolo di questo articolo per portare fuori il concetto che la definizione normalità, ha l’effetto di un velo sulla realtà oggettiva. Con frasi tipo “è normale”, “lo fanno o lo dicono tutti” si è delegata all’esterno, alla massa, la capacità di decidere cosa è giusto o cosa è sbagliato, perdendo il buon senso e la capacità personale di discernere. La frase citata nel titolo “Intanto i bambini non capiscono”, ha giustificato per generazioni atteggiamenti e comportamenti che hanno profondamente traumatizzato l’infanzia dei nostri antenati e di noi stessi.

E quando ciò viene convalidato, fino al 1976, dal fatto che i medici stessi ritenessero di poter operare i neonati senza anestesia perché a detta loro non sentivano il dolore, tutto ciò ci pone di fronte alla distanza presa dalla vita stessa.

Immagine creata con IA

Nel contesto delle rappresentazioni sistemiche, da anni mi occupo, degli effetti sul corpo, sul sistema nervoso e sul sistema famigliare di questa separazione profonda dalla vita che nasce già nel periodo della gestazione, nel contesto della nascita e del periodo neonatale. Le mie esperienze in Africa e l’assimilazione sempre maggiore nell’approccio sistemico della teoria polivagale di Stephen Porges e le sue applicazioni nel contesto di rilascio somatico a livello corporeo, mi hanno portata a integrare in Metodo Jan – Rappresentazioni sistemiche a regolazione vagale, l’aspetto della fisiologia umana, della co-regolazione vagale nel contesto sistemico: siamo un organismo all’interno di un organismo famigliare.

L’organismo famigliare dovrebbe essere per il piccolo e la piccola un ambiente sicuro. Se la cultura collettiva porta a credere che il bambino non sente o non capisce nulla, è impossibile offrire a quella creatura un ambiente sicuro. L’adulto si sente legittimato di diventare il carnefice dei propri figli o anche dei figli degli altri, nella misura in cui interiormente, a sua volta, per gli stessi traumi, ha dovuto congelare e far morire interiormente quel bambino, quella bambina.

La conoscenza e gli strumenti di oggi, ci permettono di fermare questa catena di generazioni traumatizzate, sconnesse e in modalità di sopravvivenza. Potete leggere i miei primi tre libri per approfondire le tematiche sul contesto della gestazione e della nascita; in questo contesto mi limito a riportare un messaggio profondo portato da Michel Odent, chirurgo francese che ha riportato l’attenzione sull’importanza della nascita fisiologica e l’estrema attenzione che va portato al benessere della madre e del bambino.

Per entrare profondamente nella tematica, però devo riportare delle cognizioni di fisiologia per comprendere bene l’aspetto traumatico fetale e neonatale.

Il sistema nervoso autonomo si suddivide in parasimpatico e simpatico. Il parasimpatico, a sua volta è formato dal ramo dorso vagale e il ramo ventro-vagale.

Questi due rami fanno parte di due stadi evolutivi dell’essere umano molto distanti tra di loro. Il dorso vagale, in comune con anfibi e rettili, è apparso all’incirca 500 milioni di anni fa; il ventro vagale è la sua evoluzione, tipica dei mammiferi che sviluppano relazioni sociali, sviluppata all’incirca 200 milioni di anni fa. Questa evoluzione ha comportato la mielinizzazione delle fibre. Che cos’è la mielinizzazione? Immaginate un cavo elettrico, con i fili che conducono la corrente intrecciati e la guaina di gomma che li riveste; immaginate il sistema nervoso dorso vagale senza la guaina e il ventro vagale con la guaina. Mi fa pensare al detto “a nervo scoperto”.

Con un immagine del genere, cosa ci può far venire in mente il buon senso? Forse che il nervo scoperto sente molto più dolore o che comunque il trauma entra molto più in profondità rispetto a quello con la guaina, la mielina.

A titolo d’informazione, il sistema nervoso dorso vagale inizia a formarsi alla nona settimana di gestazione, la mielinizzazione inizia dal terzo mese di gestazione ma non si completa prima dei 24 mesi di vita. Il simpatico si attiva alla nascita ed evolve quando il neonato impara a muoversi. Detto questo è logico comprendere che i traumi più profondi da elaborare sono quelli gestazionali e del periodo neonatale. E che la paura più profonda che soggiace in tutti noi, è la stessa di un pesciolino nascosto sotto una pietra ad aspettare che il predatore vada via.

Ed è su queste basi che Metodo Jan lavora.

Ho conosciuto Michel Odent nel 2019, l’ultimo seminario che ha tenuto a Trento nel 2020, poco prima del lockdown. Aveva novant’anni, ora ne ha novantacinque e ancora dona la sua saggezza. Uno degli aspetti che più mi colpì e mi ha aperto la porta a una certa qualità di lavoro, è stato quando ha condiviso la tematica della socializzazione del parto.

Si presuppone che questo processo sia iniziato tra il paleolitico e il neolitico, all’incirca dieci mila anni fa. Prima, la donna, come tutti i mammiferi, seguendo il proprio istinto, al momento del travaglio si isolava per partorire. La nascita era avvolta da un alone di mistero, in cui però, la donna non disturbata, nella sua fisiologia e con un sistema nervoso non attivato, poteva rilasciare tutti gli ormoni funzionali a una nascita fisiologica e aggiungo, altrettanto sacra.

Poi, qualcuno, ha voluto guardare, conoscere, spiare.

E l’osservatore influisce l’osservato, semplice legge di fisica.  E in questo caso ha attivato anche il sistema nervoso, inibendo i processi fisiologici già citati. Dall’osservare il parto di conseguenza è diventato un atto ritualizzato e di conseguenza socializzato. Quando Michel Odent portò questa storia, ho compreso molte dinamiche e oggi, dopo tanto tempo, mi sovviene un collegamento.

Le leggende sono sempre linguaggi portatori di verità celate.

Nel 2018, nel mio primo libro, riportai un racconto, che solo adesso collego alle parole di Michel Odent. Le sue parole si ricollegano al mito in cui ritroviamo la drammaticità della socializzazione del parto.

Sono di origine scozzese e olandese, appassionata di antropologia; conosco bene la storia dei celti e dei popoli antecedenti a loro che vivevano in Irlanda, in Scozia e in Bretagna. Nella mitologia irlandese ci sono i racconti sui Tuatha de Dannan, popolo di semidèi che viveva in Irlanda, prima dell’arrivo dei Celti, che persa la battaglia con i Milesiani di origine iberica, si trasformarono nel piccolo popolo, elfi e folletti nelle brume d’Irlanda. C’è un racconto in particolare che mi ha colpito molto e che trovo sconcertante per le similitudini che porta nella realtà.

La dea Macha, una delle figlie dei Tuatha, aveva sposato un contadino e rimase incinta di due gemelli. Per salvare la vita del marito, viene costretta dal re dell’Ulster, a gareggiare contro i suoi cavalli, nonostante fosse sul punto di partorire.  Macha si rivolse al re e alla folla di spettatori : “Tutti voi che siete nati da una donna, per amore della vostra stessa madre, abbiate pietà di me e lasciate che io partorisca prima di partecipare alla gara!”.

Tutti quanti si opposero alla sua richiesta.

Macha vinse la gara ma sulla linea del traguardo, partorisce i suoi gemelli davanti agli occhi di tutti gli uomini lì presenti, trasformando ciò che era un rituale sacro e segreto in una propria esibizione pubblica, tra insulti e derisione. Con i due gemelli tra le braccia, lancia una maledizione terribile su tutti gli uomini dell’Ulster per il loro orgoglio e insensibilità: per nove volte nove generazioni (il numero più magico che c’è), avrebbero sofferto tutti come nelle pene del parto.

Macha che maledice gli uomini dell’Ulster

Si dice che la maledizione di Macha non si sia ancora conclusa. 

Ritrovo in questo racconto aspetti molto profondi della rabbia femminile che pervade il corpo e la pancia delle donne ed è interessante come questo racconto ci riporti ad una grande ferita del collettivo. La coscienza collettiva sta ricordando l’importanza del rapporto fra la madre e il bambino, nella gestazione, nella nascita e nel primo periodo neonatale.

Le madri sentono, i bambini sentono tutto e che la maledizione di Macha si possa sciogliere nel liberare tutti: donne, madri e uomini, figli anche loro di madri.

Fonti:

“Esperienze polivagali per operatori corporei” Cinzia Brait e Marina Negri

“La femmina sacra” Maureen Coneannon

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