
Ho sempre vibrato interiormente all’apparizione di un arcobaleno, osservandolo anche da adulta con lo stupore e lo sguardo di bambina; quel momento magico in cui la luce solare attraversando le goccioline d’acqua nell’esaurirsi di un acquazzone, crea un ponte multicolore.
Quel momento sospeso, iridescente, rappresenta la celebrazione del passaggio di condizione; nell’oscurità della pioggia, nell’assenza del sole, quando le nuvole si allontanano, è sufficiente un fascio di luce per manifestare uno degli spettacoli naturali più incredibili e allo stesso tempo scontato, su questo pianeta.
La natura celebra in questo modo il passaggio di condizione, a livello spirituale ogni manifestazione rappresenta un simbolo e il contatto fra Luce e Acqua, i due elementi fondamentali alla vita, manifesta l’arcobaleno.
Noi genere umano siamo in grado di celebrare e rispettare il parallelismo di questo processo in quello che è il passaggio più importante dell’esistenza umana, la nascita? La manifestazione dal non manifesto al manifesto, il comune detto “venire alla luce”, forse potrebbe avere un significato molto più profondo di quello che superficialmente pensiamo.
Ovviamente non sto parlando della semplice gioia o brindisi alla nascita di un figlio, ma di un atto che implica un contatto interiore profondo con il cuore, le emozioni e anche l’aspetto spirituale. Siamo una società incapace di pregare, di inchinarsi e di farsi umile di fronte a forze più grandi; stiamo attraversando la fase massima della materializzazione di ogni aspetto della vita, dell’identificazione nel personaggio costruito, nel teatro delle maschere sociali, una fase storica in cui le cellule che danno la vita sono diventate merce di scambio.
Una parcellizzazione della realtà limitata solo a ciò che si può toccare con mano, non nella fiducia dei sensi, ma nello sforzo immenso e illusorio di avere controllo sulla realtà, sulla vita e sulla morte.
Questo atteggiamento distaccato e asettico si scontra totalmente con la forza e la potenza dell’atto della nascita, del partorire una creatura.
Sono estremamente convinta, insieme ad altri pionieri, che un atteggiamento diverso, responsabile, amorevole e connesso, durante la gestazione e la nascita, possa creare collettivamente un nuovo paradigma, possa creare pace, nel senso profondo della parola.
Mi ritengo una ricercatrice della vita e dell’anima, e nei miei svariati studi e ricerche, non ho trovato nessuna religione o filosofia che dia realmente valore e dignità al ruolo del femminile nel perpetuare la vita o, se ci sono, questi elementi si sono persi nel buio del tempo e solo grazie al lavoro instancabile dell’archeologa lituana Marija Gimbutas, è stato possibile scardinare una visione patriarcale profondamente radicata nella ricerca e collocazione storica di molti ritrovamenti di statuette antropomorfe e zoomorfe antichissime.
In tutte le culture antiche si ritrovano molti riferimenti a divinità collegate alla fertilità, all’amore e alla sessualità sacra, dee protettrici del parto e dell’allattamento ma sono sempre elementi esterni, nulla parla o testimonia il ruolo spirituale e fisiologico nell’atto del partorire della donna, come unica e indiscussa protagonista di quel processo.
Per assurdo, mi viene da ricordare, che nel contesto religioso più recente e conosciuto a noi occidentali, come memoria collettiva, la protagonista nella nostra memoria storica, è proprio Maria, che in quella grotta, insieme a Giuseppe e a due mammiferi animali, il bue e l’asinello, diede alla luce Gesù.

La donna intrisa nel corpo di paura, di contrazione fisica, di allerta del sistema vegetativo, per un tempo protratto di migliaia di anni, ha attuato interiormente un processo di rimozione; ella ha rinunciato all’essere protagonista della gestazione e della nascita, di essere parte attiva e indispensabile alla preservazione della vita. La “maledizione di Eva” si è insinuata nel corpo delle donne, nell’utero è diventata la paura di partorire, la paura di dare la vita.
E la paura trasmette paura, dando vita a generazioni di individui contratti nel corpo e alienati a livello di coscienza. Nel lavoro che propongo di risoluzione dei traumi a rilascio corporeo, sto constatando un parallelismo di blocco fisiologico; quello che per generazioni non è stato espresso verbalmente dalle donne attraverso la gola, lo stesso blocco lo ritroviamo a livello vaginale e del collo dell’utero. Grandi masse di dolore non espresse oralmente, con il pianto, le urla e il lamento per paura di perdere il controllo o semplicemente perché etichettate “isteriche” dalla società moralmente perbenista e bigotta, diventano masse trattenute e contratte a livello muscolare e del sistema nervoso, collocato nelle viscere, nella parte muscolare uterina, nei fluidi della mucosa vaginale che diventano prevalentemente acidi, contrari alla vita. Per generazioni l’intimazione – chiudi la bocca, chiudi le gambe – ha sortito un processo degenerativo, che ha sfociato in pensieri trattenuti, pettegolezzi, invidia, manipolazione, desiderio di vendetta e maledizioni (dire male). Questa non è la reale energia femminile, non è essere donna, non si può partorire e poi dire male dell’uomo che ti ha permesso di diventare madre, tutto ciò è contrario alla Vita e a quell’arcobaleno, di cui ho parlato all’inizio dell’articolo.
L’arcobaleno come celebrazione del passaggio, un arco che unisce, un ponte, parallelismo dell’atto della nascita, del risultato della compenetrazione del fuoco maschile e dell’acqua femminile, dando vita alle sfumature delle infinite possibilità dell’esistenza umana: la creazione. Il ponte tra i mondi spirituali e il mondo materiale, l’utero come prima casa nella materia. Questa è la genesi.